Nati al Vestuti

Maurizio Di Fruscia

Maurizio Di Fruscia è un altro pezzo di storia recente della Salernitana, un tassello fondamentale per il mosaico del nostro percorso “Nati al Vestuti”. Ci ha accolto con grande disponibilità nel suo studio di architetto, regalandoci una carrellata di anèddoti legati alla sua militanza salernitana (protrattasi anche fuori dal campo perchè Di Fruscia vive nella nostra città), senza tralasciare alcune riflessioni sui cambiamenti del panorama calcio.

… La Salernitana è sempre stata l’anima della città, una parte integrante. Stesso dìcasi del Vestuti, che è esattamente lì dove deve stare. Anche la squadra dovrebbe stare lì, vivere la città, la gente, tastandone quotidianamente gli umori. L’avvento dell’Arechi ha determinato una sorta di scollamento. E infatti, quando passo accanto al Vestuti è come se si lamentasse, perchè non conta più niente; è come se gli avessero tolto l’anima: prima pulsava tutta la settimana, noi calciatori intessevamo relazioni sociali con le persone più disparate. Il feeling che si creava era un plus-valore, ti trovavi in uno spazio dove capivi che la gente ti voleva bene e ti stimava, le forze si moltiplicavano.

… I nuovi giocatori che arrivavano da fuori si spaventavano del boato del pubblico, del clima in generale. Noi che già conoscevamo l’ambiente li avvertivamo in anticipo, alcuni all’inizio erano davvero terrorizzati. Ricordo Boschin e Cavestro, sul pullman del ritorno dal ritiro piemontese, che confabulavano e si raccomandavano a vicenda – condizionati dalle classiche dicerie sul Meridione – di prendere casa vicini, di stare sempre insieme, di andare in giro insieme; io dissi loro: “Ma dove credete che andiamo? Salerno è una città evoluta e può insegnare qualcosa a tutti”. Fatto sta che alla prima al Vestuti sbiancarono al momento di trovarsi al cospetto di tifosi, coreografie e mortaretti. Una simbiosi del genere non l’avevano mai vissuta. Al Nord fai come il “ragioniere”: svolgi il tuo compitino, l’allenamento e poi vai a casa. A Salerno no, sei personaggio pubblico, e come tale oggetto di esaltazioni e critiche frequenti. E perchè no, di “prediche” del tifoso che ti incontra per strada. Le sensazioni che ti fa vivere questa città non si vivono altrove.

Oggi i calciatori sono industrie singole, magari non si divertono nemmeno. Noi eravamo una famiglia. Io sono il risultato di tutta una serie di elementi, di incontri. Non potrei non vivere quel tempo insieme a quel gruppo. Ognuno di noi nello spogliatoio portava in dote qualità umane e tecniche. Avevamo piacere ad andare in ritiro o a fare allenamento proprio perché ci divertivamo, eravamo molto ben assortiti. La rovina del calcio attuale è che ci sono tante persone che vogliono guadagnare su e con quelli che giocano al pallone. All’epoca, i procuratori erano considerati fuorilegge. Attualmente la cosa scottante è la mancanza dei vivai, sostituiti dalle scuole calcio: tu paghi e fanno giocare proprio tutti. Non c’è più selezione, differenza. E così comprano tanti giocatori all’estero. Il calcio deve essere un divertimento ed è stato svuotato da coloro che vi hanno visto la possibilità di business. Non ci sono più storie da raccontare, prima c’erano i personaggi. Oggi la TV vuole costruirli ma non ci riesce perchè prima esistevano davvero, erano istintivi, genuini.

… Giovanni Zaccaro era uno di questi: a Salerno divenne più loquace, a Brindisi (con cui ero in squadra insieme) non parlava proprio. Ghio un giorno gli spiegò alcuni movimenti nel corso dei suoi proverbiali sermoni di teoria (noi giocavamo con Zaccaro unica punta-pendolo davanti e i centrocampisti che si inserivano): “Quando scende Belluzzi sulla destra – diceva Ghio – tu ti sposti a sinistra, scambi con lui e lo fai andare in gol. Quando scende Lombardi da sinistra, tu ti sposti a destra, scambi con lui e lo fai andare in gol”. Zaccaro replicò, dopo una pausa teatrale: “Dunque mister, quando l’anno prossimo andrò in un’altra squadra e, sapendomi attaccante, mi chiederanno ‘Quanti gol hai fatto?’, io dirò che mi spostavo a destra e a sinistra!”.

Tutte le storie sui moduli e le tattiche mi fanno sorridere. Se hai una buona squadra e un buon gruppo i risultati arrivano. Nel 1981-1982, la fortuna – che dà e toglie impietosamente – produsse un collettivo di personaggi “strani”, che non avevano mai giocato assieme. Ma che, come detto, erano molto ben assortiti e sapevano esattamente cosa fare. L’allenatore, Romano Mattè, quasi non vedeva la partita, erano Chiancone e Zucchini che in mezzo al campo facevano le marcature, gli spostamenti; era una cosa tacita, nessuno si prendeva la briga di creare contrasti con l’allenatore. Sapevamo che era così, tanto in campo andavamo noi. Alla fine la fortuna, dopo che eravamo riusciti a trovare quadratura e risultati, nonostante le partenze di alcuni pezzi pregiati (vedi Della Bianchina) ed il cambio di allenatore (Mattè rilevò Ghio), ci tolse quanto accumulato: a cominciare dall’epatite di Marconcini, si assommarono una serie di componenti sfavorevoli, il che dimostra che per vincere ci vuole il giusto mix di fattori. Noi eravamo una buona squadra proprio perchè ognuno aveva delle caratteristiche precise e svolgeva un ruolo specifico. Penso a quei casi tipo Verona di Bagnoli, Cagliari di Scopigno, Lazio di Maestrelli, metèore che hanno costruito la loro fortuna su sincronismi del genere.

Il classico coro “Picchia Di Fruscia” inevitabilmente condizionava gli arbitri; ad ogni modo io giocavo in un ruolo (stopper) dove, ovviamente, ero contrapposto al calciatore avversario di maggior pericolosità/fantasia ed usavo la mia fisicità, la mia “cattiveria” agonistica. Solitamente, infatti, non hai un marcatore che può equivalere la tecnica del centravanti e deve ricorrere al fisico.

Ricordo il giardiniere sordo del Vestuti; si faceva sempre lo scherzo di mandare i nuovi arrivati a chiamarlo, ovviamente senza informarli del problema; oppure ricordo il “bitter” che prendevamo sempre nello spogliatoio prima degli incontri, con l’abitudine consolidata di farcelo mandare dal bar vicino allo stadio: quando arrivò Perani come allenatore (dopo Lojacono) e non conosceva quella routine, si trovò davanti questo garzone nel pre-partita (molto disinvolto perchè ormai era la prassi e per noi faceva parte della famiglia) e chiese spiegazioni. Fu Zucchini a tirare fuori il giovane dall’impaccio, spiegando l’usanza al mister.

Chirco, Burla e Della Bianchina erano la “batteria” cavese della Salernitana; io non capivo la “delicatezza” della cosa, poi mi spiegarono il discorso sulla rivalità Salerno-Cava. Mattè fu fine stratega perchè, nonostante Burla fosse infortunato, lo faceva sentire importante nello spogliatoio e quando fu impiegato disputò delle partite eccezionali. Piero era molto simpatico. Leccese il più rigoroso: in 4 anni, dormì con me una volta sola e giusto quella mattina non ci alzammo in orario e fummo lasciati in albergo da Lojacono (al pari di Zucchini, Del Favero, Fracas e Viscido); me lo rinfacciò, ma i fatti rivelarono che più d’uno non aveva sentito la sveglia del massaggiatore…

… Toneatto (84-85) lo avemmo con noi appena 15 giorni in ritiro a Montone, a metà preparazione ci venne a trovare il Presidente Iapicca. Toneatto chiese rinforzi, il Presidente – senza nemmeno guardarlo in faccia – disse: “Lei pensi a fare l’allenatore, io faccio il Presidente”. Toneatto rispose: “Lei continui a fare il Presidente ma io vado via”. Raccolse gli indumenti, le sue cose, ci salutò e se ne andò.

… Nella partita “maledetta” col Campobasso (81-82) io marcavo Biagetti, ex mio compagno al Cynthia Genzano; segnò Canzanese, lo marcava Mariani. Giulianova diventò decisiva, sapevamo che dovevamo vincere. Si fece male Chirco e la squadra sollecitò Mattè a mettere una punta, cosa che lui non fece perchè non sentiva ragioni: mise dentro Mariani, difensore, ed alla fine perdemmo. Troisi e Picentino, i Presidenti, entrarono negli spogliatoi e rivolgendosi a Mattè ed al 2° Gigante, che aveva l’unica colpa di trovarsi seduto al suo fianco, dissero: “Tu e tu, non presentatevi più a Salerno”. E Gigante che chiedeva: “Ma io che c’entro???”.

… Nella turbolenta settimana del dopo Pozzuoli (sconfitta 3-1), con intemperanze dei tifosi, addio di Della Bianchina e Giammarinaro, arrivò Mattè (che con quei baffetti sembrava Mimì Metallurgico) e mi propose titolare. La domenica prima della partita, nello studiolo, lui mi disse: “Si vede dallo sguardo che sei un ragazzo intelligente, non ti devo dire niente. Fai tu”. I miei compagni, così preoccupati per la nuova gestione tecnica che stavamo per affrontare, mi vedevano sorridente e non capivano il perchè. Uomini giusti nei ruoli giusti, difesa più forte con record di imbattibilità. Grossi ci punì a Livorno dopo 13 risultati utili, ebbe vita facile nel segnare perchè io la notte ebbi una forte labirintite ma Mattè, che aveva l’abitudine di schierare sempre la stessa formazione, mi fece giocare ugualmente.

… Calònaci faceva il militare a Napoli, aveva la fidanzata ad Arezzo ed un Golf GT Turbo. Aspettava che Mattè “puntualmente” lo relegasse in tribuna, e dopo la lettura della formazione si metteva in auto e raggiungeva la fidanzata. Nel riscaldamento si fece male uno dei convocati e Mattè disse “Chiamatemi Calònaci, dov’è Calònaci???”; non esistevano i cellulari, lo inseguimmo letteralmente sull’autostrada. Si presentò al campo stravolto.

Tutte queste cose, queste persone, mi mancano. Era vita, al campo Vestuti. Tutto vissuto intensamente.

[foto di copertina da tuttosalernitana.com]

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